Ci sono film che invecchiano troppo presto, che durano il tempo di una stagione o di qualche anno, per poi finire nel dimenticatoio del cinema. In quell’affollato stanzino, buio e dimenticato da tutti, che nessuno apre più. E poi ci sono film che viaggiano letteralmente nel tempo, meglio di chiunque altro. È il caso di Ritorno al futuro che non ha solo piegato le leggi della fisica ma anche quelle del tempo cinematografico. C’è qualcosa di miracoloso nel film diretto da Robert Zemeckis. Un film che nasce in un’epoca di cinema commerciale, come di fatto erano gli anni ’80, ma che riesce a trascendere il tempo e diventare un mito universale. Insieme a Bob Gale, il regista di Chicago costruisce un racconto che parla del tempo, ma non come concetto fisico o paradosso da scienziati.
Quando pensiamo a Ritorno al futuro, infatti, ci vengono subito in mente immagini iconiche come la DeLorean, l’espressione “Grande Giove!” o il flusso canalizzatore. Ma a rendere il film straordinario, non sono solo questi dettagli, seppur memorabili, ma è il modo in cui Robert Zemeckis e Bob Gale sono riusciti a combinare una narrazione impeccabile, l’innovazione tecnica è un’emotività così profonda in un film (teoricamente) per ragazzi che, però, a conti fatti, parlava a tutti. I due hanno creato qualcosa di apparentemente semplice ma in realtà calibrato come un orologio svizzero. A partire dal concetto di viaggio nel tempo che, nonostante nel 1985 non fosse un’idea del tutto nuova, viene approcciato con un ritmo, una leggerezza e un’intelligenza scenica che non si erano mai visti sul grande schermo.

Quello del tempo e degli orologi sono figure e concetti che vengono ripetuti a oltranza nel film. Il tempo non è solo un espediente fantascientifico: diventa metafora delle scelte, delle possibilità, delle responsabilità. E diventa anche identità. È il modo in cui l’uomo cerca di correggere sé stesso. Marty McFly si ritrova negli anni ’50 e scopre che anche il più piccolo gesto può alterare il corso della storia. Questa idea di “causa e conseguenza” non viene raccontata con pesantezza morale, ma attraverso gag, tensione e stupore, creando un equilibrio che rende il film allo stesso tempo comico, avvincente e profondamente umano. In questo equilibrio tra leggerezza e profondità, Zemeckis mostra come il passato influenzi il presente e quanto comprendere le nostre radici sia parte del viaggio verso il futuro.
Il 1985 in cui vive Marty McFly è un’America in cui il protagonista ha smesso di sognare: i genitori frustrati, la scuola come routine, un futuro che sembra già scritto. E quando finisce nel 1955, non sta solo viaggiando nel tempo, sta attraversando il mito americano, sta andando a guardare negli occhi le proprie radici. E quello che scopre non è il passato idealizzato, ma l’origine dei propri limiti. E in quel momento capisce che la famiglia, così come la società, non è fatta di modelli, ma di imperfezioni. È qui che Zemeckis mette a fuoco il suo sguardo: dietro la leggerezza della commedia e i codici della fantascienza, indaga il rapporto tra generazioni. Ogni adulto è un adolescente che non ha mai smesso di cercare sé stesso e ogni figlio è il tentativo di correggere, o almeno comprendere, tutto quello che è venuto prima.

Ritorno al futuro è, infatti, un racconto sulla responsabilità e sui rapporti familiari. Sulla possibilità di cambiare il proprio destino attraverso l’accettazione del passato e delle proprie radici. Poiché ogni passo verso il futuro richiede, di fatto, un equilibrio col passato. E questo vale sia per Marty che per George o Lorraine, ma anche per l’America stessa, che in quel viaggio verso il 1955, ritrova l’innocenza perduta e una genuina fiducia nel sogno e nel domani. Diverte e commuove allo stesso tempo, lasciandoci addosso una velata malinconia e la sensazione di doverci misurare con qualcosa di universale. Perché per quanto si possa desiderare di cambiare il passato, alla fine dobbiamo fare i conti con chi siamo realmente.
È anche un viaggio nell’immaginario americano e negli anni ’50 visti attraverso la nostalgia degli anni ’80. Robert Zemeckis racconta il passato con affetto e ironia, dai balli scolastici ai juke-box e alle Coca-Cola in bottiglia, confrontandosi anche col razzismo, il conformismo e la paura del diverso. Un’epoca raccontata in chiave emotiva e un passato idealizzato che riflette sul presente. Al centro del film c’è spesso il desiderio di aggiustare le cose, di cambiare la storia e migliorare tutto ciò che si è ereditato. E questo è probabilmente un qualcosa che tutti noi abbiamo sognato almeno una volta nella vita. L’unico problema è che, purtroppo, non abbiamo una DeLorean a disposizione per farlo! E tutto quello che ci resta, è al massimo un rimorso o una playlist che possa farci sognare.
Dal punto di vista tecnico, Ritorno al futuro fu una piccola rivoluzione: la stessa DeLorean non era solo un mezzo per viaggiare nel tempo ma divenne ben presto il simbolo del sogno americano che trasformava un fallimento industriale (perché quella macchina lì, fu veramente un fallimento industriale) in un’icona immortale. Dietro a ogni dettaglio, dal flusso canalizzatore alle 88 miglia all’ora (ricordiamo che proprio questo aspetto, fu oggetto di ampia discussione tra regista e sceneggiatori affinché fosse una velocità credibile e al tempo stesso spettacolare al momento della partenza). In tutto il film c’è una precisione quasi maniacale che sorregge l’intera struttura narrativa, ecco perché la sceneggiatura di Zemeckis e Gale funziona come un orologio perfetto (di nuovo la questione tempo/orologio), dove ogni gesto, ogni battuta e ogni oggetto trovano una collocazione nel futuro o nel passato.

Un altro elemento interessante riguarda, poi, la colonna sonora che riprende l’ormai consolidato mantra dell’orologio. Alan Silvestri, infatti, cos’è che fa…lui non si limita a comporre musiche che nel tempo sarebbero diventate assolutamente iconiche ma costruisce un tessuto sonoro che scandisce il ritmo stesso del tempo nel film, come fosse una sorta di “metronomo emotivo”.
Non mi soffermerei troppo sugli interpreti dal momento che tutti noi sappiamo quanto sia stata potente l’alchimia tra di loro ma è impossibile non sottolineare come Michael J. Fox e Christopher Lloyd siano riusciti a creare una delle coppie più iconiche della storia del cinema. La loro sintonia è sicuramente la spina dorsale del film (e della saga), col primo a portare sullo schermo l’ironia, l’energia e la vulnerabilità di un adolescente sospeso tra il desiderio di ribellione e il bisogno di dimostrare di esistere, mentre il secondo incarna la follia geniale e tenera dello scienziato visionario che crede ancora nel potere delle idee e che non manca di esclamare “Grande Giove” a ogni occasione, come se davvero ogni scoperta potesse cambiare il mondo.
Cos’è che resta, quindi, di Ritorno al futuro, a quarant’anni esatti dalla sua uscita nei cinema? Tutto. Semplicemente tutto. È un film sempre in movimento. Non solo tra epoche e linee temporali, ma tra emozioni, generi e ricordi. È una commedia, una storia di formazione, un racconto di fantascienza e una lettera d’amore al cinema stesso. Zemeckis ci dice che il tempo è un gioco meraviglioso, ma anche un avversario da rispettare. Possiamo provare a riscriverlo, possiamo sbagliare strada, ma alla fine torniamo sempre lì: al presente, e a ciò che siamo diventati.
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SCHEDA TECNICA
Titolo Originale: Back to the Future
Regia: Robert Zemeckis
Genere: Commedia, Fantascienza, Avventura
Paese: USA
Durata: 115 min.
Con: Michael J. Fox, Christopher Lloyd, Lea Thompson, Crispin Glover, Thomas F. Wilson, Claudia Wells, James Tolkan
Casa di produzione: Universal Pictures, Amblin Entertainment
Distribuzione in italiano: United International Pictures
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NB: questa recensione potete ascoltarla nel corso della seconda puntata del Tucumcari Podcast.
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