Forse qualche volta l’avrete sentito dire: “il mito del West è morto“.
È Clint Eastwood che gli ha sparato.
Ora… dimenticate tutto quello che pensate di sapere sul West. Perché ne Gli spietati, Clint Eastwood quel West lì lo prende, lo svuota di tutto quello che era il contenuto che noi conosciamo: i duelli, le pistole e il codice d’onore e ce lo racconta con una malinconia assoluta, estrema, bruciandolo senza musica, senza gloria o senza rimorsi. E mostrandoci (tra l’altro) cosa è che resta davvero di quel West: uomini stanchi e impolverati, bugie sepolte in un cimitero che non ha tombe, ferite sempre aperte e poi sangue… così tanto sangue da non evaporare mai.
Quattro premi oscar e un cast pazzesco per una storia senza gloria ma piena di rimorsi e pallottole. Gene Hackman, Morgan Freeman e lo stesso Clint Eastwood in un film cupo e tormentato, che decostruisce il mito dell’eroe giusto e impavido e lo lascia morire sotto il peso del passato. Capolavoro del western crepuscolare, Gli spietati è il film che consacra Eastwood come regista di prim’ordine. Ma in che senso direte voi? È presto detto: è il film con cui il regista chiude definitivamente i conti col western. Non solo con il genere, ma anche e soprattutto col mito che lui stesso ha interpretato per decenni. Eastwood offre una riflessione cruda e malinconica sulla violenza e sulla redenzione, smontando dal di dentro la figura del pistolero spietato e senza paura, in quello che, poi, è a tutti gli effetti una sorta di testamento al contrario.

Per capire Gli spietati, infatti, dobbiamo tornare indietro negli anni. Al Clint Eastwood senza nome, quello col poncho, lo sguardo di ghiaccio e la pistola sempre carica. Eastwood era il vero mito americano: l’uomo giusto al momento giusto. Ma nel 1992, con Gli spietati fa qualcosa di rivoluzionario: si toglie il cappello da cowboy e ci mostra la vera essenza di un uomo al tramonto. Il protagonista, infatti, non è un eroe ma un ex assassino vecchio e stanco e roso dalla colpa. Il passato lo perseguita (e questa è una tematica che ritroveremo spesso nella filmografia di Clint Eastwood), è un pistolero che vorrebbe dimenticare gli errori e gli orrori del passato ma che torna a sparare, prima per disperazione, e poi per furore. Non è più, veloce o lucido, né moralmente limpido. È un uomo piegato dalla vita, dal tempo, dal rimorso. Ma soprattutto, è un uomo che ha ucciso. Il regista ci fa sentire l’eco di ogni singolo colpo che quell’uomo ha sparato nella sua giovinezza, poiché ogni morte gli ha lasciato dentro una traccia, una ferita nell’anima.
E allora cominciamo a capire: Gli spietati non è una storia di vendetta ma una narrazione tragica sulla dannazione della violenza. E ogni pallottola che fischia nel film, si conficca dritta nello stomaco dello spettatore. È un western che si guarda indietro con disincanto ma anche con una certa nostalgia verso un tempo mitico ormai perduto. Ed è, al tempo stesso, anche il requiem del western. Dove Eastwood scopre, non per vendetta ma per rispetto, l’illusione di un tempo lontano e la fine della frontiera come metafora della fine dell’innocenza americana. Se Sergio Leone aveva già mostrato l’ambiguità del West, Clint Eastwood qui fa un ulteriore passo in avanti: non lo abbellisce più neanche per sbaglio. Qui nulla è spettacolarizzato, non ci sono musiche epiche ad accompagnare i duelli e le lunghe cavalcate nella prateria ma solo silenzi, fango, polvere, paura e rimorsi. Il West non è più un luogo di frontiera eroico e mitizzato, ma è una palude morale. È semplicemente un’America in cui gli eroi non esistono (e in cui forse non sono mai esistiti) e nella quale gli uomini si rivelano, alla fine, fragili e soli. Il revolver non è più un simbolo di virilità ma un oggetto freddo, sporco e difficile da usare. E la cosa più inquietante è che Eastwood ci mostra quanto sia facile tornare ad essere spietati. Bastano un dolore, un ricordo, uno sguardo. Col mostro che pensavamo di aver sepolto per sempre e invece è sempre lì: appena sotto la pelle, mai sconfitto ma solo addormentato.

È un cinema di poche parole, apparentemente silenzioso ma che sotto quei silenzi, ha davvero tanto ma tanto da dire. Una regia cruda come un atto di sottrazione. Scompaiono definitivamente i virtuosismi e lo spettacolo della frontiera. E Clint Eastwood gira con lentezza, quasi con pudore. Come se sapesse che ogni scena potrebbe essere l’ultima. Ci fa vedere la morte da vicino senza darci la possibilità di scappare. Siamo tutti lì a guardare, a sentire il sangue che scorre. Perché la verità, quando arriva, è sporca. E il west, quello vero, non era un ballo al tramonto ma fango, febbre e solitudine.
Immaginate allora di essere in un western, seduti in cerchio attorno ad un fuoco di un bivacco notturno. Sentirete la voce di Clint Eastwoood che, senza rancore, ma col dolore di chi ha creduto fino in fondo a quella visione, prima di scoprirne la tossicità, vi sussurrerà all’orecchio: «Io ero il volto di un sogno. Ma quel sogno era una bugia. Vi ho insegnato a credere nei pistoleri ma ora vi chiedo di smettere. Vi ho mostrato uomini forti e silenziosi ma ora vi chiedo di ascoltare i loro silenzi. Vi ho portato nel west ma ora vi mostro l’altra faccia. Quella che abbiamo sempre ignorato».
SCHEDA TECNICA
Titolo originale: Unforgiven
Regia: Clint Eastwood
Genere: Western, Drammatico
Paese: USA
Durata: 131 min.
Con: Clint Eastwood, Gene Hackman, Morgan Freeman, Richard Harris, Frances Fisher, Anna Levine
Casa di produzione: Warner Bros., Malpaso Productions
Distribuzione in italiano: Warner Bros.
NB: questa recensione potete ascoltarla nel corso della prima puntata del Tucumcari Podcast.
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